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Giurisprudenza

La sostenibilità della democrazia costituzionale

Il 22 maggio 2024 Marta Cartabia, Presidente emerita della Corte costituzionale, ha tenuto all’UPO la conferenza annuale della Cattedra Galante Garrone presso il Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze politiche, economiche e sociali. L’evento, incentrato sul tema tema della sostenibilità della democrazia costituzionale, è stato organizzato in collaborazione con il Dottorato in Ecologia dei sistemi culturali e istituzionali e con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria.

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Democrazia sostenibile
Democrazia sostenibile

credits © 123RF/UPO

Mercoledì 22 maggio 2024, Marta Cartabia, docente di Diritto costituzionale presso l’Università Bocconi di Milano e Presidente emerita della Corte costituzionale, ha tenuto la conferenza annuale della Cattedra Galante Garrone presso il Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze politiche, economiche e sociali dell’Università del Piemonte Orientale. L’evento è stato organizzato in collaborazione con il Dottorato in Ecologia dei sistemi culturali e istituzionali e con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, che finanzia le numerose attività della Cattedra fin dal 2010, data della sua istituzione.

Il tema della conferenza – “La sostenibilità della democrazia costituzionale” – è quanto mai attuale. Il Democracy Report 2024 del V-Dem Institute attesta che, a livello globale, si sta verificando una regressione democratica che ci ha riportati ai livelli del 1985. Se i paesi democratici (91) risultano ancora in vantaggio rispetto alle autocrazie (88), la situazione cambia radicalmente se si considera la percentuale della popolazione mondiale: il 71% vive in stati autoritari e illiberali (10 anni fa era il 44%), mentre solo il 29% vive in democrazie costituzionali, le quali, tuttavia, da qualche anno manifestano, in modo più o meno marcato, segni di criticità. Un dato per tutti, particolarmente sorprendente: Israele, da sempre considerato una democrazia liberale, entra nel 2023, per la prima volta, nel novero delle autocrazie. Qualche anno prima, nel 2021, il rapporto di Freedom House, intitolato significativamente “Democrazia sotto assedio”, dopo aver denunciato il declino delle libertà democratiche per il quindicesimo anno consecutivo, concludeva che «l’equilibrio internazionale» si è spostato «a favore delle tirannia». Oltre all’«influenza maligna» dei regimi illiberali come la Cina e la Russia – che cercano di dare credito all’idea secondo cui «la democrazia è in declino perché sarebbe incapace di rispondere ai bisogni della gente» – a destare particolare preoccupazione è il diffondersi di politiche autoritarie, populiste e nazionaliste, in antichi paesi democratici, a cominciare dagli Stati Uniti, dove, il 6 gennaio 2021 si è verificato il clamoroso assalto a Capitol Hill. A rincarare la dose, proprio qualche giorno prima della conferenza di Marta Cartabia, il 16 maggio, l’Economist affidava alla sua copertina una domanda che solo pochi anni fa sarebbe stata inimmaginabile: Is America dictator-proof?

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Se si considera la percentuale della popolazione mondiale, il 71% vive in stati autoritari e illiberali (10 anni fa era il 44%), mentre solo il 29% vive in democrazie costituzionali.

Dopo aver ricordato questi ed altri dati che attestano lo stato di malessere delle democrazie, la professoressa ricorda un volume del 2009, da lei curato con Andrea Simoncini, che già si poneva la questione oggetto della conferenza (La sostenibilità della democrazia nel XX secolo, Il Mulino): un’istituzione, scrivono nell’introduzione «è sostenibile se è in grado di reggere la sfida del tempo». Possiamo, oggi, ancora ritenere che «la conquista della democrazia sia definitiva e irreversibile?» Oppure – come molti segnali sembrerebbero indicarci – «ci può essere un uso della democrazia che finisce per disseccarne le radici e, alla lunga, rischia di farla crollare?» 

I numerosi studi che negli ultimi anni hanno affrontato il problema convergono nel sostenere che la virata autoritaria non si realizza attraverso un sovvertimento repentino e violento delle istituzioni democratiche, ma per effetto di torsioni che si verificano utilizzando le stesse procedure democratiche, svuotandole progressivamente e subdolamente del loro contenuto, specialmente attraverso il mancato rispetto di prassi e convenzioni costituzionali. Gli indicatori che ci rivelano lo stato di crisi di una democrazia sono noti: l’assenza di una libera competizione elettorale, che assicuri il rispetto del pluralismo delle opinioni politiche e la correttezza dell’esito delle elezioni, le restrizioni della libertà di stampa e di insegnamento, gli attacchi all’indipendenza della magistratura, la “cattura” delle istituzioni di garanzia da parte del governo, l’alterazione degli equilibri costituzionali (checks and balances), le limitazioni alla libertà di associazione e di manifestazione del dissenso.

Quali le cause della crisi delle democrazie costituzionali nel mondo? La professoressa Cartabia ne indica alcune: il decadimento del valore della verità e l’inquinamento del pozzo dell’opinione pubblica attraverso massicce campagne di disinformazione, rese ancora più pericolose ed efficaci dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale, che impediscono ai cittadini di formarsi un’opinione fondata su dati veri e affidabili, alterando il processo democratico; l’aumento delle diseguaglianze e della povertà che finisce per indebolire il legame di appartenenza alla comunità politica (il grave fenomeno dell’astensionismo va letto anche in questa prospettiva); gli eccessi della cultura individualistica dei diritti che offusca il tema dei doveri e il valore della solidarietà, fondamentale per la tenuta del tessuto sociale e politico; la crisi dei corpi intermedi e, specialmente, dei partiti, all’origine dell’attuale «democrazia del pubblico» (Manin) fondata sulla personalizzazione della politica.

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Elezioni Elezioni © Wikimedia Commons

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Tra le cause della crisi delle democrazie costituzionali nel mondo [...] c’è il decadimento del valore della verità e l’inquinamento del pozzo dell’opinione pubblica attraverso massicce campagne di disinformazione, rese ancora più pericolose ed efficaci dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale, che impediscono ai cittadini di formarsi un’opinione fondata su dati veri e affidabili, alterando il processo democratico.

La seconda parte della conferenza si concentra sull’analisi dell’art. 1 della nostra Costituzione, che esprime i caratteri essenziali della nostra Repubblica, fondata su due principi in fisiologica tensione: il popolo sovrano (l’anima democratica) e i limiti al potere del popolo sovrano e dei suoi rappresentanti (l’anima costituzionalistica). Come dovrebbe essere a tutti noto, il secondo comma dell’art. 1, dopo aver affermato il principio democratico secondo cui la «sovranità appartiene al popolo», aggiunge una precisazione fondamentale, spesso volutamente dimenticata: «che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».

La parola «forma» rimanda, innanzitutto, ai modi diretti e indiretti in cui si manifesta la volontà del popolo sovrano e, quindi, al dibattito su democrazia diretta e rappresentativa. Ad onta di quanti ritengono che la mediazione di un corpo di cittadini dediti alla cosa pubblica costituisca un intralcio o un pervertimento della forma autentica di democrazia (pregiudizio rilanciato negli ultimi anni dai movimenti populisti anti-casta e anti-tecnocrati), la nostra Costituzione manifesta la sua predilezione per le forme della democrazia rappresentativa, riservando uno spazio più limitato e residuale alle forme di democrazia diretta (il referendum abrogativo, l’iniziativa legislativa popolare, le petizioni…). La stessa Corte costituzionale ha affermato in più occasioni la centralità della democrazia rappresentativa e, quindi, del ruolo del parlamento, sempre più svilito dalla tracotanza del governo, che si manifesta in modo evidente nell’abuso della decretazione d’urgenza, quasi sempre assistita dalla questione di fiducia, e nella compressione del dibattito parlamentare. Quest’ultimo, secondo la Consulta, non può ridursi a un simulacro, com’è avvenuto in modo plateale qualche anno fa in occasione dell’approvazione, in poche ore, della legge di bilancio, un atto fondamentale di competenza del parlamento.

Una particolare sottolineatura dell’importanza del principio della rappresentanza si è avuta in occasione di due sentenze della Corte in materia di legislazione elettorale (1/2014 e 35/2017). Le leggi portate all’attenzione dei giudici costituzionali prevedevano un premio di maggioranza finalizzato a garantire l’esigenza della governabilità. La Corte, pur ammettendo che si possa assegnare al principio di governabilità un rilievo costituzionale, osserva che quest’ultimo non può mai andare a totale discapito del principio, di sicuro rilievo costituzionale, della rappresentatività. Il necessario, corretto, bilanciamento dei due principi presuppone l’alterità tra il governo e il parlamento, il quale non può essere ridotto a un organo di ratifica delle proposte del primo. Un chiaro indice testuale di questa alterità è dato dall’art. 94 della Costituzione, che stabilisce il principio secondo cui il voto contrario di un ramo del parlamento non comporta l’obbligo delle dimissioni del governo. Detto diversamente: la mancata approvazione di un disegno di legge del governo da parte della maggioranza che lo sostiene non è un evento patologico, ma qualcosa che appartiene alla fisiologia dei rapporti istituzionali.

Nella direzione opposta rispetto a quanto si evince dal testo costituzionale va il disegno di legge governativa sul premierato elettivo, rispetto al quale Marta Cartabia esprime forti riserve. La principale ricade sull’idea ispiratrice della riforma, quella secondo cui il popolo – concepito come un’entità omogenea che esprime una volontà univoca e compatta – sceglie il capo del governo, al quale si affida per tutto il periodo del suo mandato. Il premier eletto formerà poi il proprio governo, unito da un legame forte con la propria maggioranza parlamentare, la cui sorte è strettamente collegata alla vita del governo e del suo capo. Se a questo si aggiunge il dato della legge elettorale – che sarà sicuramente maggioritaria con premio di maggioranza – il risultato finale è un forte squilibrio tra il principio di governabilità e di rappresentatività, a tutto vantaggio del primo.

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La mancata approvazione di un disegno di legge del governo da parte della maggioranza che lo sostiene non è un evento patologico, ma qualcosa che appartiene alla fisiologia dei rapporti istituzionali.

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La sostenibilità della democrazia costituzionale

La sostenibilità della democrazia costituzionale Giorgio Barberis, Massimo Vogliotti, Marta Cartabia e Chiara Tripodina © UPO/Chiara Pinguello

Nell’ultima parte della lezione la professoressa ha affrontato il tema, fondamentale, dei limiti della democrazia, invitando gli studenti a leggere il libro di Sabino Cassese, La democrazia e i suoi limiti (Mondadori 2017), libro che è stato presentato ad Alessandria dall’Autore, il 10 maggio 2017, sempre all’interno della cornice della Cattedra Galante Garrone. Dopo aver precisato, con Cassese, che in una democrazia costituzionale non c’è un’unica sorgente di legittimità del potere, ma tante, Cartabia ricorda che il moderno costituzionalismo è nato proprio per costruire un argine al potere. Il principio di origine illuministica della separazione dei poteri – che riprende e sviluppa l’idea medievale della potestas temperata e la distinzione tra gubernaculum e iurisdictio – è l’essenza del costituzionalismo e la conditio sine qua non della libertà, come scriveva Montesquieu nel sesto libro dell’Esprit des lois.

A presidio delle libertà individuali e dei diritti, i padri e le madri costituenti hanno posto i principi della rigidità della Costituzione e del controllo di costituzionalità delle leggi, che, in questi ultimi anni, nell’opinione pubblica ma anche nella riflessione dottrinaria, sono stati messi in discussione a vantaggio di una più pura e libera affermazione della volontà del popolo sovrano. Acquisizioni culturali che sembravano ormai patrimonio di tutti oggi, purtroppo, non lo sono più. In numerosi paesi che si pretendono democratici il principio cardine dell’indipendenza dei giudici è sottoposto a più o meno forti limitazioni. Una modalità di condizionamento politico del potere giudiziario si ha con il fenomeno del Court packing, cioè con l’occupazione delle corti, specialmente quelle supreme e costituzionali, da parte del potere politico. Diverse sono le modalità attraverso cui si può giungere a questo risultato: modificando il meccanismo delle nomine, accorciando il mandato di giudici scomodi, ritardando o anticipando le nomine dei giudici a seconda del momento politico favorevole, riducendo il potere o le funzioni delle corti. A tal proposito, ha avuto grande risonanza quanto è accaduto recentemente in Israele, dove il governo, nonostante la forte opposizione parlamentare e popolare, è riuscito ugualmente ad approvare una parte della riforma contestata, quella che mirava a sottrarre alla Corte suprema il potere di pronunciarsi sulla ragionevolezza delle leggi. Nonostante il clima politico incandescente, la riforma è stata bocciata dalla Corte il primo gennaio di quest’anno con una sentenza storica, fondata sulla dottrina degli unconstitutional constitutional amendments, che va nella direzione – condivisa ormai da molte corti costituzionali, tra cui la nostra – di ricavare dalla Costituzione dei principi supremi che non possono essere infranti nemmeno da una legge di revisione costituzionale.

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Il principio di origine illuministica della separazione dei poteri – che riprende e sviluppa l’idea medievale della potestas temperata e la distinzione tra gubernaculum e iurisdictio – è l’essenza del costituzionalismo e la conditio sine qua non della libertà, come scriveva Montesquieu nel sesto libro dell’Esprit des lois.

Giunta al termine della sua densa lezione, la Presidente emerita della Corte costituzionale si congeda dagli studenti segnalando quelli che a lei appaiono i due principali pericoli per la sostenibilità delle democrazie costituzionali nel mondo: lo smarrimento del valore del pluralismo e del senso del limite.

Il primo principio, come si è visto, tende ad essere sempre più sacrificato in nome dell’esigenza della governabilità, che esige semplificazione, compattezza e rapidità decisionale. Il valore del pluralismo – centrale nelle costituzioni democratiche del secondo dopoguerra – ci suggerisce, invece, che la decisione, specialmente quella che attiene alle regole del gioco democratico, non va intesa come la manifestazione della volontà di una parte che si impone sull’altra, ma il risultato di una costruzione comune, cui si giunge in seguito a un processo deliberativo che coinvolge tutte le parti e che comporta inevitabilmente qualche rinuncia in vista di un bene superiore, com’è accaduto durante la stagione straordinaria dell’Assemblea costituente. L’unità, insomma, non è un dato di partenza (il popolo come corpo omogeneo che esprime una volontà generale univoca), ma un risultato cui si deve giungere attraverso il libero confronto delle idee. 

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La riforma è stata bocciata dalla Corte il primo gennaio di quest’anno con una sentenza storica, fondata sulla dottrina degli unconstitutional constitutional amendments, che va nella direzione – condivisa ormai da molte corti costituzionali, tra cui la nostra – di ricavare dalla Costituzione dei principi supremi che non possono essere infranti nemmeno da una legge di revisione costituzionale.

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L’altro principio, il senso del limite – che va letto non solo come limite esterno, ma anche come limite che chiunque eserciti un potere si deve dare da sé – è l’essenza stessa del costituzionalismo moderno: a questo principio si sono ispirate, in particolare, le costituzioni nate dopo la tragedia dei totalitarismi, che hanno rivelato tutta la debolezza dello stato di diritto ottocentesco.  Ma il senso del limite non deve valere solo nei rapporti tra i poteri dello Stato: anche i valori e i principi sanciti dalla Costituzione devono soggiacere allo stesso principio di moderazione.

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[...] i diritti della persona quando diventano assoluti si fanno tiranni.

A tal proposito, Cartabia ricorda un pensiero di Galante Garrone, riportato nel volume dedicato al decennale della Cattedra a lui intitolata (L’arcipelago del diritto. Lezioni per i futuri naviganti, a cura di M. Vogliotti, Rosenberg & Sellier, 2022): il vero Stato liberale, osserva il “mite giacobino”, deve diffidare anche dei valori migliori, se considerati assoluti. Quante volte, infatti, in nome dell’assolutezza di un valore si sono sacrificati i diritti, la libertà, il benessere dei singoli individui. È questa consapevolezza, nota con una punta di orgoglio Marta Cartabia, che ha guidato lei e i suoi colleghi della Corte costituzionale a scrivere, in una celebre sentenza, che i diritti della persona quando diventano assoluti si fanno tiranni. Sono queste, in ultima analisi, le minacce più serie alle democrazie contemporanee: l’assolutizzazione di una parte sul tutto e l’assolutizzazione di un potere o di un valore che, in forza di una loro asserita superiorità, sfuggono al principio cardine del limite.

    Ultima modifica 24 Giugno 2024

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